Quest’anno mi sono cimentata in una costruzione piramidale, nel croquembouche, dolcetto decisamente di bella presenza, scenografico (se ti riesce bene) ma dall’impegno temporale considerevole.
in altre epoche, proprio per la sua caratteristica scenografica era un dolce da matrimonio, compleanno o battesimo, oggi un dolce da natale o giù di lì. Io ve lo propino verso San Giuseppe, tanto per rimanere nel tema bignè.
Alla ricerca di altre ricette rispetto a quelle che avevo cartacee, mi sono imbattuta in immagini da terrorismo web dolciario … mani ricoperte di guanti di cotone con sopra altri guanti di lattice per non scottarsi, coni di cartone da usare come dima (forma) per dare la forma al dolce, insomma un turbinio di raccomandazioni per la costruzione e la sicurezza personale.
Ho sfidato la sorte e quindi non ho messo nessuna protezione per il lavoro con il caramello che viene anche usato per incollare i piccoli bignè oltre a realizzare i fili che avvolgono la delicata piccola struttura.
Mi è andata bene. Chiamiamola fortuna del principiante o giù di lì, ma non mi sono scottata; ho usato incautamente, ma con successo, due forchette per fare i fili, in effetti erano un misero palliativo a quei bellissimi attrezzi, tipo spatolina puntuta o frusta metallica tagliata che sicuramente facilitano la vita del costruttore di fili caramellosi.
L’unico errore commesso è stato quello di non fare una doppia dose di pasta per i bignè, per cui avendo incollato un giro troppo largo di morbidi choux, non ce l’ho fatta a completare il cono, mi mancava drammaticamente la punta … insomma, ho realizzato un tronco di cono. Poco male, ho rimediato con le decorazioni e la sua figura l’ha fatta lo stesso. In effetti, a pensarci bene, assomigliava ad una specie di nido.
E a che cosa lo abbiniamo questo giro di bignè voluttuosi? Ma naturalmente alle collinette verdi di Charles Jencks e al nuovo parco inaugurato qualche mese fa, il Parco Portello a Milano.
Charles Jencks ai più non dice assolutamente nulla, ma per chi ha studiato architettura negli anni ’80 è stato quasi una maledizione/benedizione. Se il suo nome non vi dice nulla, forse il termine Post Modern, invece sì.
Movimento serissimo, malgrado i suoi aspetti apparentemente ludico-edonistici, all’estero ha avuto una notevole storia di crescita ed evoluzione, ha generato le basi per i movimenti successivi, si è mosso con disinvoltura nell’arte come nell’architettura, nella musica (mirabili le performance di Graces Jones o di David Byrne, o la performance artist Laurie Anderson) come nella moda (chi non ricorda le spalline delle giacche di Armani o i vestiti di Cinzia Ruggeri), o nel cinema (Blade Runner, un titolo tra i tanti), fino al design (il caleidoscopico gruppo italiano Memphis con Ettore Sottsass, per esempio) andando ad intervenire in tutti i campi espressivi, sino all’arte dei giardini e quindi Jencks.
Meravigliosa è stata la mostra retrospettiva “Postmodernist, style and subversion 1970-1990” aperta l’anno scorso al Victoria & Albert Museum di Londra, mostra che faceva chiaramente leggere come questo movimento ha prodotto un dibattito culturale articolato in tutto il mondo tranne che nel nostro paese, dove, a fronte di figure di rilievo dal punto di vista teorico-critico, il movimento è involuto in deboli riproduzioni prive di forza che ritroviamo ancora oggi nei timpani e colonne riproposti stancamente e in maniera ridicola, nei coronamenti dei nuovi condomini periferici delle nostre città. Poco male, ormai lo sappiamo e siamo quasi rassegnati, l’Italia è diventata da anni ormai la periferia del mondo.
Torniamo a Charles Jencks.
Architetto e paesaggista americano, di origini scozzesi, dopo una laurea in letteratura, una in architettura, un dottorato in storia dell’architettura, con The Language of Post-Modern Architecture del 1977 decreta la fine del Movimento Moderno gettando nuove basi teorico-critiche proprio del Movimento Post Modern che agli inizi degli anni ‘70 aveva già prodotto opere importanti per chi studiava il paesaggio, come Imparando da Las Vegas (1972) di Robert Venturi e Denis Scott Brown.
Le teorie di Jencks in qualche modo hanno trovato forma ed esplicitazione proprio nell’architettura e nel paesaggio, nella e il suo cammino come progettista di giardini inizia proprio in Scozia, ad Edimburgo, con le sistemazioni paesaggistiche della Scottish National Gallery of Modern Art per poi proseguire in quello che è stato il suo manifesto ed approfondimento di tutto quel complesso di teorie ed applicazioni scientifiche che hanno nutrito i suoi studi: il Giardino della Speculazione Cosmica, a Portrack House, nel Dumfriesshire in Scozia, la sua dimora privata, giardino costruito inizialmente con la moglie Maggie Keswick esperta e studiosa di giardino cinesi e a lei dedicato dopo la sua morte.
La ricerca di una costruzione etica del giardino si esplicita nel lavoro di Jencks attraverso l’imitazione della natura, intesa come rivelazione della natura stessa attraverso i suoi principi e quindi attraverso un pensiero di natura platonica.
Un lavoro costruito esplicitando tutte quelle teorie scientifiche, dalla matematica alla fisica, che costruiscono le fondamenta del pensiero contemporaneo: la teoria del caos, i frattali, la fisica quantistica, la meccanica ondulatoria fino alla genetica molecolare.
E allora ecco che prendono forma spirali e curve, onde e specchi, geometrie complesse con la volontà di costruire un microcosmo, una Imago Mundi, l’immagine di una creatività che si nutre del rapporto tra arte e cosmologia, tra le potenzialità della scienza come occasione di generare invenzione e quindi progetto. Un lavoro che parte proprio dalla potenzialità della natura di autorganizzarsi in forme che trovano un equilibrio in modo spontaneo, non precostituito.
Le forme che ne derivano hanno continui rimandi a tutto ciò, ma al contempo il rapporto di queste geometrie, forme, è incisivamente delineato anche con il rapporto con l’altro, che in questo caso è il giardino, un recinto, un luogo circoscritto, chiuso, come il giardino dei sensi e del DNA e con il Bosco, la natura selvaggia e morbida che costruisce il contesto, oltre che lo sfondo del Parco.
In giro per il mondo negli ultimi anni sono molti i parchi e giardini, anche di piccole dimensioni e progettati da famosi paesaggisti che hanno per tema proprio il modellamento del terreno e che si ispirano a forme geometriche dai complessi rapporti, un lavoro che ha proprio come tema centrale la Landform, come viene chiamata tra gli addetti.
Qualche mese fa a Milano è stato inaugurato il Parco del Portello sorto sull’area della fabbrica dismessa dell’Alfa Romeo, progettata proprio da Jencks insieme a Andreas Kipar con lo studio Land.
Operazione complessa, non solo per l’impianto del parco ma per il processo di costruzione del parco stesso che è iniziato solo dopo importanti opere di bonifica del terreno e di trattamento delle macerie dell’ex fabbrica che in parte hanno costituito il substrato necessario per rialzare tutto il
piano del parco di tre metri rispetto al livello stradale.
Un’area di circa sei ettari dove i movimenti del terreno sono organizzati in colline belvedere che rappresentano in senso metaforico, le fasi della storia dell’uomo: la preistoria, la storia, il presente e il futuro Questi modellamenti organizzano spazi concavi e convessi dove di volta in volta altre strutture, come i giardini e uno specchio d’acqua si alternano ai pieni.
Le colline sono naturalmente dei coni dove un percorso a spirale sale sopra la sommità nel tentativo di portare il visitatore su un altro piano di visione del parco.
Non ho avuto la possibilità di visitare ancora questo parco di persona, ma dalle tante foto che ho visionato, non ritrovo la stessa sensazione di bellezza che mi aveva in qualche modo mi aveva avvolta nel giardino di Portrack.
Forse sarà il fatto che quando si progetta e soprattutto si costruisce uno spazio pubblico in Italia prevalgono su tutto le preoccupazioni di sicurezza che in altri posti nel mondo non sono presenti, e che spesso mortificano, se non deturpano l’opera. Ecco allora cosa non mi convince, cosa non mi piace: il percorso a spirale protetto da un parapetto. Sembra quasi che la geometria della collina abbia subito un ingabbiamento, una specie di giro di domopack.
Leggo poi che il 30% dei costi di realizzazione sono stati quelli destinati ad un muro di cemento armato costruito per recintare l’area e alle numerose recinzioni e parapetti in acciaio voluti dal Comune, e non previsti nel progetto, non per dimenticanza od altro, ma perché semplicemente in nessun posto sono richiesti, solo in Italia dove adulti e soprattutto i bambini, sono perennemente in pericolo di vita dentro i parchi.
La seconda cosa che non mi convince è il rapporto tra l’opera e il paesaggio, il contesto. Forse mi sbaglierò, ma un elemento che rafforzava il senso del parco che Jencks ha realizzato a Portrack sta proprio nel rapporto con l’altro, con il bosco, con le masse morbide e cupe che avvolgono i coni verdi delle collinette, costruendo non un sottofondo o uno sfondo alle sculture verdi ma un dialogo dove sono rafforzati di volta in volta le due diverse strutture.
Ecco, qui a Milano questo manca. Il paesaggio delle colline ha come sfondo gli edifici della periferia, ha dei volumi più o meno geometrici che vivono di altre storie e linguaggi e che nulla hanno a che fare con la natura. Ecco perché non mi piace e non mi convince. Mi sembra tutta una costruzione che vive di rigidità.
Non so cosa succederà a questo Parco tra cinque anni, i costi di manutenzione devono essere molto alti, se non altro per tutto il lavoro di falciatura dei prati orizzontali e verticali che ricoprono buona parte delle superfici insieme al mantenimento dei piani inclinati delle collinette realizzati in terre armate con rinforzi di georeti e coperture vegetali in idrosemina. Insomma una struttura altamente artificiale. Dovranno essere impiegati giardinieri specializzati e macchinari adatti per seguire nel tempo e mantenere il Parco nelle sue forme con la speranza, ultima a morire, di poter avere le risorse necessarie per mantenere, in modo decente, questa struttura.
Procedimento per la realizzazione dei fili di caramello del croquembouche
Per il montaggio del croquembouche si prosegue incollando con del caramello i bignè alla base del piatto o della base di cartone alimentare e si prosegue come se dovessimo costruire un muretto, alternando in modo sfalsato i bignè e fermandoli con il caramello. Dopo si procede alla copertura con i fili di caramello.
la ricetta supercollaudata dei bignè la pubblicherò il 19, oggi invece voglio raccontarvi la peripezia dei fili di caramello.
fili di caramello
ingredienti
200 gr di zucchero semolato
procedimento
in una pentola in acciaio con un fondo spesso mettere a cuocere lo zucchero a fuoco basso. Alcuni usano delle pentole antiaderenti, insomma, fate come ritenete meglio.
Lo zucchero deve sciogliersi da solo, non deve essere girato e bisogna fare attenzione a non far bruciare il bordo esterno, dove lo zucchero è a contatto con la parete della pentola.
Appena si sarà sciolto e avrà preso un colore giallino, il caramello è pronto e si può usare.
Attenzione a non far bollire il caramello, può bruciare e diventare insopportabilmente amaro.
Con una forchetta o con gli attrezzi adatti (in circolazione ci sono delle fruste tagliate, per esempio) prendere un po’ del composto e farlo gocciolare su un pezzo di carta forno. Se la goccia si solidifica abbastanza rapidamente siamo pronti al passo successivo, ossia quello di realizzare i fili facendo dei zig zag aerei con la forchetta. anche qui la fantasia aiuta, perché, per esempio, qualcuno utilizza dei bastoncini per aiutarsi nella tessitura dei fili, altri, più impavidi, realizzano direttamente sul dolce il groviglio. Questo è stato il mio caso.
Un altro procedimento, con la famosa frusta tagliata, è quello di immergere le punte che saranno in questo modo ricoperte da gocce di caramello. Nel momento che si alza la frusta dalla pentola, queste gocce filano e proprio in quell’istante, con le mani si prendono questi fili e si tirano delicatamente, facendoli “filare”.
Se il caramello dovesse solidificarsi tra un filo e l’altro, nessuna paura, si rimette la pentola sul fuoco e si riscalda il caramello per un minuto, fino ad arrivare alla consistenza necessaria.
Devo dire che non ho utilizzato l’acqua per il caramello e neanche l’alcool per le eventuali scottature che fortunatamente, non ci sono state.
Eh si, la prima é nella proprietá dell’autore mentre la seconda é un parco pubblico a Milano.
😉
è la realizzazione di una collinetta privata? mi piace!! 😉 sogno smpr di poter acquistare un’isola, alla collina non ci avevo ancora pensato, così dolce.
besos
🙂
WOW! che dolcetto senza pari e che foto meravigliose! adoro questo tipo di landscape architecture, visitare almeno uno di questi parchi e’ sulla mia lista di cosa da fare.