Maschera, mettersi una maschera, mascherarsi per Carnervale.
È ciò che si fa a Carnevale, nella festa dove per un attimo ci si può travestire, mettersi in altri panni, far finta di essere qualcun altro, un eroe, un fumetto, un personaggio di altri tempi, perfino un animale.
È giocare con l’ambiguità, mostrando altro o un lato opposto al proprio essere.
E ci si mette una maschera, si cela il volto, ci si mette nei panni di qualcun altro.
Per gioco o per ritualità, a carnevale o nel teatro, a volte anche nella propria vita.
Nella storia dell’uomo mettersi una maschera significava cercare di captare le forze del soprannaturale, trasfigurava chi la metteva perché era lo spirito che, una volta indossata, si impossessava della persona, entrando così in contatto intimo con gli spiriti evocati.
L’uso della maschera è, dalla notte dei tempi, un momento rituale in cui una data società, attraverso danze, canti, recite, ossia cerimonie, riti, sancisce i passaggi temporali, di crescita o di iniziazione, o ciclici, come per esempio il susseguirsi delle stagioni o di un determinato periodo, spesso religioso, insomma, quello che comunemente sono chiamati i riti di passaggio.
La maschera come rappresentazione, come trasformazione in un altro essere è anche quella che si mettono gli attori in forma metaforica, calandosi nel personaggio o in forma materiale, mettendosi veramente una maschera, un costume.
Nel teatro greco poi, la maschera sul volto oltre a caratterizzare il personaggio, serviva anche come cassa di risonanza per la voce, o anche le maschere nella commedia dell’arte (in Italia ed in Europa) dove viso e corpo erano loro stessi una maschera.
Insomma, maschere per nascondersi, per trasformarsi, per rivelare.
Quest’anno la mia maschera di Carnevale è una maschera teatrale, una Mask Cake ispirata alle maschere del teatro, una torta realizzata per festeggiare una giovane aspirante attrice e quindi, per una volta, questa torta è diventata un piccolo rito propiziatorio per augurare fortuna, successo e felicità.