Settembre è ormai lontano, l’estate è passata e anche l’autunno, siamo in inverno. Il Natale è alle spalle e siamo in quel tempo nel quale aspettare, rannicchiati nel buio, che le piogge e il freddo facciano il loro lavoro preparando la terra, e noi, a nuove primavere.
È in questo periodo di silenzio e introspezione che si scava nei ricordi, un periodo di lunghe attese e di sospensione e complice anche una inevitabile influenza sono finalmente riuscita a porre la distanza giusta da un giorno di metà settembre passato in viaggio nel Kent a visitare tre giardini.
Da qui questo lungo racconto che farò in tre puntate per descrivere a modo mio tre giardini importanti, Sissinghurst, Great Dixter e Prospect Cottage visitati in un giorno di fine estate.
Tre tappe a poco più di cento chilometri a sud di Londra, tra il Kent e l’East Sussex. Quattro amici, una macchina a noleggio, macchine fotografiche, memory card vuote, una bottiglia d’acqua, tanta allegria per il programma della giornata e il navigatore con il tragitto pronto per guidarci.
Ma si sa, spesso quando si programmano le cose, c’è sempre il caso che arriva a cambiare le cose, una distrazione e ti ritrovi in un altro flusso di situazioni.
E così usciti indenni dal traffico di Londra prendiamo l’autostrada come suggerito dal navigatore e quindi ci rilassiamo; quattro persone chiuse in un abitacolo che parlano ed ecco che l’attenzione al tragitto diminuisce, si prende un’uscita sbagliata e ci si ritrova inevitabilmente a cambiare tragitto. Il navigatore ricalcola e noi, fedeli alla sua prontezza di spirito, ci affidiamo al nuovo percorso.
L’ora per arrivare al primo giardino da visitare non basta più e ci ritroviamo dentro a un percorso più lungo che ci porta a immergerci nelle campagne del Kent. Con la macchina percorriamo una viabilità di campagna che serve le tante piccole e grandi tenute che si susseguono in un morbido, verde, ondulato paesaggio inglese. Piccoli boschetti, tratti ombrosi, una strada segnata da alte siepi che non lasciano vedere oltre, un tunnel verde che costringe gli automobilisti a una guida prudente, una guida attenta anche per la carreggiata stretta e sinuosa.
Si dice che la vita è un soffio, un istante, un attimo. È vero, è così. Un momento stai nella tua vita, avvolta dal tuo essere lì, concentrata su te stessa o distratta da ciò che hai intorno, piena delle tue fantasie e pensieri, e un attimo dopo il nulla. Tra questi due momenti c’è un istante in mezzo in cui hai la percezione del prima e del dopo; è quell’istante in cui ti rendi conto nel modo più forte possibile di cosa è la vita.
Una curva stretta di fronte a noi, un’automobile ad alta velocità viene contromano sbucando dal nulla e tu non puoi fare nulla, non puoi muoverti, cambiare traiettoria, puoi solo guardare davanti a te e sentire quel soffio. È un istante, il più silenzioso della vita, un attimo infinito e al tempo stesso breve. A poche decine di centimetri la macchina pirata cambia traiettoria, ci sfiora senza toccarci e rientra nella sua carreggiata. Il nostro tragitto continua ma noi non siamo più quelli di un attimo prima.
Finalmente arriviamo a Sissinghurst, rimaniamo tutti silenziosi e in questo stato di scampato pericolo ci allontaniamo gli uni dagli altri senza dirci nulla e ci ritroviamo sparsi nel parco, ognuno per conto suo in una visita solitaria; ci ritroveremo poi dopo alla caffetteria del giardino per mangiare insieme un muffin salato e bere un caffè caldo prima di proseguire il nostro viaggio. Destino quindi ha voluto che questi giardini li abbia visitati avvolta da una specie di sospensione, chiusa in una bolla nella quale l’immagine di quell’attimo continuava a rimbalzare nelle pareti della mente.
Ho già scritto qualche anno fa un pezzo sul White Garden, il giardino bianco di Sissinghurst senza averlo visitato, raccontando di questo colore e della difficoltà di progettare con quello che definirei più che colore, luce. Mi ero comunque ripromessa di visitare prima o poi il parco che lo accoglieva, uno dei giardini della Gran Bretagna più turistici, probabilmente paragonabile per successo mondiale a quello francese di Ginerny di Monet. E così eccomi finalmente a calpestare questi prati e sentieri.
Tantissimi anni fa, all’inizio della mia liaison con il giardino, poco dopo la mia laurea in architettura e nel periodo in cui mi occupavo di più di progetto urbano piuttosto che di bordure fiorite, lessi la prima edizione italiana de La poetica del giardino di C. W. Moore, W.J. Mitchell e W. Turnbull jr., libro che poi ha accompagnato non solo la mia formazione ma anche quella di qualche di tanti studenti che ho incontrato negli anni di insegnamento all’università. È stato un testo che silenziosamente nel tempo ha trasformato il senso e la costruzione delle analisi che si fanno quando si mette la matita sul foglio, un modo in cui le composizioni e le scomposizioni di un progetto o di un luogo trovavano nello studio delle singole parti, gli elementi, gli spazi, le emergenze, i flussi, i vuoti che formato la trasformazione, il progetto.
Una piccola rivoluzione del pensiero dell’osservazione, non più registro di un dato di fatto ma strumento e sistema, metodo già portatore fin dall’inizio di risposte progettuali coerenti.
Ne La poetica del giardino uno dei luoghi portati ad esempio in questo gioco di composizione e scomposizione era appunto Sissinghurst.
La descrizione del parco in questo testo inizia con il mettere a fuoco il senso del giardino per Francis Bacon, un “segno di alta civiltà” nel quale il “primo principio della progettazione […] è che ci dovrebbero essere giardini per tutti i mesi dell’anno, […] un giardino perennemente produttivo” nel quale l’uomo elisabettiano controlla la natura a servizio del suo piacere.
È intorno al relitto di una torre elisabettiana che la tenuta, o meglio quello che rimaneva nel 1930 di questo luogo, che è stato costruito un giardino dai nuovi proprietari, Harold Nicolson e Vita Sackville-West: Sissinghurst.
Charles Moore nella sua analisi afferma che fu qui che venne realizzato l’ideale di Bacon, un giardino per tutte le stagioni nel quale fiori e profumi cambiano di mese in mese in una mutazione continua.
In effetti, malgrado i “tradimenti” dei giardinieri contemporanei che si occupano del parco, questo spirito è rimasto abbastanza visibile nella struttura, nell’ossatura del giardino e me ne accorgo subito all’ingresso nel momento in cui entro in possesso di un foglio nel quale sono elencate tutte le fioriture presenti nella giornata di visita.
Sissinghurst è poi forse l’esempio più rappresentativo di quello che Guido Giubbini ne Il giardino degli equivoci definisce come un capovolgimento di sguardo che «pur partendo dal giardino a stanze di tipo architettonico, ne capovolgono il senso, dandone un’interpretazione «verde», cioè riportando le piante e i fiori dal ruolo subalterno di «complementi d’arredo» a quello di elementi «architettonici» strutturanti il giardino».
Un altro aspetto che Giubbini mette in luce di Sissinghurst è il fatto che il ruolo creativo in questo giardino ritorna storicamente nelle mani del proprietario che diventa così artefice del suo giardino, un fatto singolare che poteva aver luogo «solo in Inghilterra, dove la tradizione dei proprietari progettisti era nata e si era sviluppata già nel XVIII secolo».
Se Harold Nicolson si occupò della struttura dei recinti e degli edifici, o di quello che ne rimaneva nella rovina di ciò che un tempo era stato un grande palazzo elisabettiano, Vita si occupò della vegetazione e, come dice John Dixon Hunt, «usava tutti gli spazi del suo giardino per esprimere così delle visioni culturali più ampie legate anche a tradizioni del giardinaggio britannico, a intricati e infiniti dialoghi relativi all’ordine e alla crescita, alla maestria nella costruzione di muri e all’orticoltura».
Ma veniamo alla descrizione del giardino seguendo il percorso di scomposizione e ricomposizione di Charles Moore.
Due assi principali regolano geometricamente la struttura del complesso il cui perno o landmark, elemento di inizio della lettura è la Tower, l’asse verticale dal quale tutto ha origine e dal quale tutto si dispone in una logica di successioni, sequenze, prospettive narrative proprio come accade alla struttura di un’opera letteraria. Il primo asse è perciò quello che parte dalla Tower attraversa il frutteto verso est-ovest e intercetta la statua di Dionisio che si trova sul bordo del fossato. Il secondo asse passa per il centro del prato davanti alla Tower e collega due punti focali, due statue poste come terminali di questa linea perpendicolare al primo asse.
Altri spazi geometrici replicano la sequenza di ulteriori assi minori legando in questo modo in sequenze i vuoti e le costruzioni al loro interno in una successione continua di schemi.
Da architetto sarebbe stato logico, anzi istintivo, visitare il parco percorrendo dapprima l’asse principale che si dispiegava davanti all’ingresso e poi intercettare tutti gli altri piccoli collegamenti ripercorrendo la memoria delle letture di questo giardino.
Ma quel giorno non fu così. Ciò che avevo vissuto un’ora prima aveva letteralmente cancellato tutto quello che sapevo di questo luogo, tutto quello che avrei cercato di trovare ricordando le tante letture su Sissinghurst.
Niente assi, niente geometrie, nessuna sequenza organizzata di visita. Mi trasformo in una specie di flaneur, cammino senza meta, senza un tragitto, catturata solo da quello che vedo. Entro nel primo cortile e invece di andare dritta davanti a me sull’asse principale mi perdo nel bordo fiorito del Top Courtyard, uno spazio trapezoidale delimitato sul lato maggiore dalla Biblioteca e sul lato opposto la famosa Tower. Tra Dalie, Eupatori e Salvie mi abbandono nel dettaglio, nelle tante fioriture che però non mi piacciono nel loro insieme. La cosa che invece richiama la mia attenzione sono i piccoli varchi che si affacciano in questo spazio frequentato da tante persone che rimangono religiosamente sul bordo delle aiole fiorite; sembrano tanti calabroni che ronzano e volteggiano intorno alle loro prede colorate.
La porta della Biblioteca è aperta e quindi entro. La prima cosa che vedo sul caminetto del grande ambiente è l’immagine di Vita. Davanti a lei un’intera parete ricoperta di libri. La luce è soffusa e avvolge divani, mobili e vasi cinesi, una imponente scrivania, tanti oggetti, le debolezze di Vita; un ambiente accogliente, quello che nel tuo immaginario ti aspetti di trovare in una casa di campagna inglese, quasi come i cipressi nella campagna toscana.
Uscita dalla Biblioteca mi incuriosisce un passaggio alla fine di un’aiola, una piccola porta di legno aperta che sembra più che altro l’ingresso di una zona di servizio. Ci troviamo invece nel giardino chiamato Delos.
No, non ci troviamo nella famosa isola greca delle Cicladi, un’isola oggi quasi disabitata e patrimonio Unesco, ma in uno spazio raccolto e ombroso, verde, morbido e quasi selvatico nel suo aspetto e nell’incertezza delle superfici. La fioritura sfacciata del Colchicum interrompe la morbidezza del verde punteggiando di colore le parti più in luce di questo spazio.
La cosa più interessante di queste famose stanze sono le piccole prospettive che si aprono nelle loro sequenze, una specie di secondo ordine rispetto all’organizzazione principale che rende la visita quasi una scoperta continua di spazi e al tempo stesso, ti porta a pensare a un labirinto dal quale improvvisamente esci, e altrettanto inaspettatamente rientri, catturato dal vortice delle forme vegetali, quelle di Vita.
Mentre passeggio nel Delos mi appare improvvisamente il famoso vaso cinese nero, quello della dinastia dei Ming dal quale Vita faceva ricadere durante l’estate una Ipomoea rubrocaerulea Morning Glory ‘Heavenly Blue’ e che punteggiava il centro del White Garden.
È ancora presto per entrare nella più famosa stanza giardino di Sissinghurst. M’impongo però che il Giardino Bianco dovrà essere l’ultima cosa che vedrò di questo luogo prima di lasciarlo.
Ripercorro i miei passi e mi ritrovo davanti alla Tower per dirigermi poi sul lato opposto del Top Courtyard. Oltrepasso un altro piccolo varco ed eccomi dentro il Rose Garden, il roseto organizzato in parterres regolari bordati di bosso che nel punto centrale si trasforma in pareti di alte siepi di Taxus, che a loro volta tracciano una circonferenza perfetta.
Anche qui una specie di ordine/disordine s’intreccia fino a pulire lo spazio da ogni sovrapposizione di forme e colori per definire una perfetta geometria di superfici di ars topiaria dalle cui prospettive sbucano le chiome morbide degli alberi che stanno di là del giardino, liberi nella campagna.
Un’esedra di mattoni rossi chiude il Rose Garden a Ovest sul lato esterno e una piccola porta sul lato mi svela un Cutting Garden, un luogo di lavoro nel quale non è concesso entrare. La curiosità è una costante in questo giardino e un cancello semiaperto è un invito.
La logica vuole che la visita continui seguendo l’asse che dal Rose Garden passa per il Cottage Garden e poi per il noccioleto fino all’Herb Garden sul lato opposto, verso il corso d’acqua. Anche qui cambio tragitto, esco dal cerchio della bellissima siepe di tasso e mi ritrovo in un altro piccolo giardino.
Un muro interrotto da una finestra con una grata e una piccola apertura sono gli elementi di un angolo ombroso costruito intorno a un piccolo specchio d’acqua sul quale una cassetta decorata di piombo è il punto focale della composizione.
Sembra davvero di stare dentro una stanza senza soffitto e, seduta sul muretto, m’immergo nella morbidezza del capelvenere e nelle trame delle felci.
Ritorno sui miei passi e arrivo nella parte più a sud del giardino, all’inizio del Lime Walk, un viale di tigli a spalliera racchiuso da due lunghe aiole fiorite punteggiate di vasi in terracotta.
A metà del percorso una piccola apertura nella siepe mi porta poi a un’area di servizio, nella quale una stazione di compostaggio produce quello che per un giardino è una ricchezza, ossia il compost, la trasformazione fertile degli scarti del giardino.
Un’altra apertura sul Lime Walker ed entro nel Cottage Garden dove svettano masse di colori forti, primo tra tutti il giallo dell’Helianthus ‘Lemon Queen’.
Proseguo lungo l’asse del Lime Walk ed entro in quello che forse è luogo più incantevole di Sissinghurst, il Nuttery, un intricato boschetto di noccioli la cui parte centrale è ricoperta da un tappeto di felci e fioriture di anemoni, violette, Euphorbia amygdaloides var. e Smyrnium perfoliatum, Veratrums, Mattehi struthiopteris, Onoclea sensibilis e Omphalodes cappadocica ‘Cherry Ingram’. La luce di questo lungo e disordinato parterre è quello dato della piccola fioritura della Smilacena stellata, del Polygonatum odoratum ‘Variegatum’ e del Trillium grandiflorum.
Questa specie di sottobosco, oggi ammorbidito anche dalle tante felci che si insinuano nelle fioriture stagionali, doveva invece accogliere un tempo una pirotecnica collezione di Polyanthus dai mille colori, le primule, una esplosione cromatica che si doveva probabilmente ispirare al Primrose Garden del Munstead Wood di Gertrude Jekyll. Vita e Harold non riuscirono nell’impresa perché il suolo fu contaminato e quindi compromesso da una malattia fungina dannosa per le primule, un problema che può insorgere quando per tanto tempo è coltivata un’unica specie. Anni di lotte con tutti i mezzi possibili hanno fatto desistere alla fine i diversi giardinieri che si sono avvicendati ed oggi solo alcune primule si insinuano in una composizione eterogenea di fioriture e foglie. Come d’incanto poi, in mezzo alla striscia centrale, coperta dai rami intricati dei noccioli, s’intravede la statua di un Bacco, punto focale e luminoso dentro un vortice verde di clorofilla.
Il Nuttery termina nell’ultima stanza di questo settore, una superficie quadrata racchiusa da una siepe e a sua volta ripartita in tante aiole quadrate, come da migliore tradizione di un giardino dei semplici; l’Herb Garden che dovrebbe raccoglie più di cento piante aromatiche. Lungo l’alta siepe perimetrale sono poi incastonate panchine e sedili di diversa foggia tra cui una davvero singolare, realizzata in mattoni e pezzi di colonne con il sedile ricoperto da un morbido cuscino di camomilla.
Parallelo al Nuttery c’è un altro spazio, il Moat Walk che ci accompagna fino all’inizio del fossato, antica traccia medievale del vecchio complesso e così, finalmente, ci ritroviamo davanti alla famosa statua di Dionisio, punto terminale del famoso asse Est-Ovest, l’asse prospettico maggiore del giardino.
Ma prima di arrivare alla statua di Dionisio incontriamo due aiole rettangolari che accolgono il Thyme Lawns, una composizione di diverse varietà di Thymus serpyllum che però in questo momento fa vedere una superficie nuda di terra. Questo mi ha fatto ricordare un vecchio articolo letto su Gardenia nel quale si raccontava dell’accanimento affannoso e degli sforzi vani del principe Carlo nel cercare di realizzare un sentiero ricoperto di timo in un suo giardino.
Pochi passi lungo le sponde del fosso e mi giro per incontrare con uno sguardo ampio l’Orchard, il frutteto nel quale meli e peri sono sparsi senza la geometria del frutteto produttivo. Un prato disseminato di fioriture di Colchicum, frutti a terra, panchine e vialetti vagabondi rassicurano lo sguardo che può finalmente vagare senza distrazioni continue.
Un momento di pausa prima di percorrere tutto il bordo del fossato e si risale fino alla doppia siepe che chiude un lato dell’Orchard e che cela l’ultimo giardino che ho visitato, il White Garden.
Ho già scritto di questo giardino e non lo farò ancora, ma posso dire che a distanza di mesi non è lo spazio che mi è rimasto più impresso e non posso ancora dire il perché.
Cosa manca per terminare questa lunga visita? La Tower con gli ambienti cari a Vita e la mia curiosità di guardare dall’alto tutto il giardino.
Oggi Sissinghurst è nelle mani di Troy Scott Smith sotto la supervisione di Dan Pearson e continua ad essere un campo di sperimentazione: al di là del parco, in un’ampia zona accanto al parcheggio per i visitatori è stato impiantato nel 2008 un Vegetable Garden nel quale si produce frutta e verdura biologica che oltre ad essere venduta nei market locali rifornisce la cucina vegetariana del Granary Restaurant di Sissinghurst Castle.
Grande attenzione quindi alle tecniche colturali sostenibili nel coltivare ortaggi, frutti di bosco, frutta e fiori da taglio, questi ultimi indispensabili per la biodiversità degli insetti, la salute e la riproduzione delle piante, impegno che ha portato al Vegetable Garden un premio nel 2011 assegnato dal Soil Association per la qualità biologica del suolo privo di elementi chimici. Cavoli e Nicotiana, zucche e piante di mais in una forma di mutuo soccorso vegetale che aiuta la sostenibilità di un ambiente agricolo sano.
Alla fine di questa visita cosa pensare di questo giardino? Sicuramente ciò che ho visto è un altro giardino, troppo pulito, troppo compiacente, troppo … Posso solo fantasticare nel pensare a tutte quelle immagini, quelle suggestione che la famosa coppia aveva collezionato dai tanti viaggi fatti e che dovevano fare da guida alla loro progettazione; i giardini italiani che tanto piacevano a Harold e che ritrovano forma nelle geometrie delle siepi, il sapore della Francia con i due bellissimi vasi in bronzo messi ai piedi della Tower, copia dei vasi nati per Versailles di Claude Ballin che Vita vide da bambina nel giardino di Bagatelle a Parigi e che poi nel tempo riuscì a comprare da un amico dei suoi genitori. Insomma tante suggestioni costruite intorno a geometrie e masse scomposte, queste ultime contrappunto necessario all’ordine; una vegetazione esuberante, colorata, sperimentale e disordinata ma forte, con un carattere che forse il giardino non ha più se non in alcuni angoli.
Charles Moore suggerisce in un altro passaggio del suo saggio una riflessione sull’interpretazione circa la struttura di Sissinghurst. La “collezione” di piante di Vita, le stanze di Harold, le sequenze temporali e spaziali, il modo di disporre elementi e successioni non è del tutto una novità nel mondo del giardino. La stessa idea è descritta ne La storia di Genji, poema giapponese del XI secolo nel quale si narra che il principe Genji fece costruire per ognuna delle sue dame un giardino per ogni stagione.
La visita termina nel parcheggio (nel quale forse s’intravede la mano progettuale di Dan Pearson), si è fatto tardi, bisogna ripartire perché ci aspetta la seconda tappa della giornata. Ma questo racconto ve lo farò in un’altra puntata.